«Un uomo saggio è colmato di benedizioni, tutti quelli che lo vedono lo proclamano beato» (Sir 37,24) abbiamo ascoltato dalla prima lettura, parole che risuonano di particolare verità mentre facciamo memoria di Sant’Antonino Pierozzi nel quinto centenario della canonizzazione. Contemplandone la vita virtuosa, riconoscendone i meriti dell’azione apostolica e la profondità del magistero dottrinale, la Chiesa, cinquecento anni fa, lo proclamò beato, anzi santo. Il motivo che giustificava quel riconoscimento può ben essere riassunto nella sintetica definizione di “uomo saggio”, che abbiamo prima ribadito con la parola di Dio.
Di quale saggezza si debba parlare è necessario precisarlo proprio alla luce del testo del Siracide che ci è stato proposto come prima lettura di questa celebrazione. Questo, allo scopo di non confondere la saggezza con un umano sapere, sia pur ricco, o con una capacità di gestire in modo equilibrato le vicende della vita, le cose del mondo. La saggezza biblica ha la sua radice nel cuore, che ben sappiamo non essere il luogo dei sentimenti, ma la sorgente dell’identità stessa della persona, là dove essa decide di sé stessa in rapporto al bene e al male, alla vita e alla morte, come chiarisce ancora il testo biblico, il tutto mediato attraverso il pensiero e la parola, diremmo noi mediante coscienza e comunicazione, il tutto, soprattutto, in rapporto con la verità, che è manifestazione dell’Altissimo e della sua volontà di salvezza.
La radice teologica della saggezza di Sant’Antonino è ben evidente nella profondità della sua vita spirituale, nella sua intensa intimità con Dio, come testimoniò fino alla fine della vita. Sul letto di morte, fra altre invocazioni, ripeteva: «Oculi mei semper ad Dominum». Rivelava in tal modo il segreto della sua vita santa: avere avuto sempre gli occhi rivolti al Signore, essere stato sempre immerso nelle cose di Dio.
Nel testo del Siracide, alla descrizione della natura della saggezza segue la contrapposizione tra vera e falsa saggezza. Questa è contrassegnata da un atteggiamento di presunzione nel voler essere maestro agli altri ma è incapace di dare pienezza alla propria vita, come pure fa mostra di sé nel fare discorsi saccenti ma chi la possiede è arido per sé stesso. La vera saggezza è anzitutto dono di Dio, che adorna l’uomo delle sue benedizioni e il vero saggio unisce la crescita di sé con il servizio ai fratelli, proiettando la propria vita e quella degli altri nella prospettiva dell’eternità.
Anche in questo legame tra il pensare la fede e nel congiungere il pensiero alla vita dei fratelli Sant’Antonino è un testimone significativo. Egli è un maestro sorprendentemente attuale per la sua dottrina, per il suo magistero e per la sua apertura sul piano culturale.
Egli ci insegna la “fides quaerens intellectum”, una fede pensata, capace di rendere ragione della propria speranza. Per questo il Santo, dopo la preghiera, nelle primissime ore del mattino e prima delle udienze, attendeva con passione e impegno alla stesura di opere teologiche, fra cui particolarmente celebre è la Somma di teologia morale. La sua fu una teologia attenta particolarmente al tema del comportamento umano. Figlio del suo tempo, egli ha al centro delle sue preoccupazioni l’uomo, il suo destino, la sua salvezza. La cosa poi che ce lo rende particolarmente vicino è che anche gli “studia humanitatis” non lo trovarono estraneo. Egli li valorizzò con un’apertura grande. Diceva: «Chi studia le dottrine dei gentili per Iddio, di esse fa semplicemente uso ed è… cosa lecita, anzi perfino meritoria». Fu amico di umanisti e ne favorì gli studi, ma al tempo stesso era convinto che l’umanesimo da solo non bastava a riplasmare tutta la vita dell’uomo, a fare l’uomo nuovo, e lamentava la concezione che si andava diffondendo di un uomo autosufficiente, in un orizzonte di assoluta immanenza. Tema che acquista oggi particolare rilevanza, in un contesto culturale sempre più dimentico della trascendenza e illuso di poter trovare un trascendimento dell’uomo a partire da sé stesso e non per redenzione divina. Su questo problematici orizzonti si affacciano le preoccupanti visioni del post-umanesimo e del trans-umanesimo.
Non si tratta di questioni teoriche, ma di concrete scelte da effettuare nella vita e nel mondo, in cui entra in gioco la visione della persona umana e dei rapporti sociali. Ben lo sapeva Sant’Antonino alle prese con significative problematiche sociali del suo tempo. Problemi di tutti i tipi affliggevano infatti la repubblica fiorentina, problemi che la vigile coscienza pastorale dell’arcivescovo Antonino non poteva certo ignorare. La peste, il terremoto e di nuovo la peste lo trovarono pastore premuroso e coraggioso, incurante di sé, tutto dedito al bene materiale e spirituale del suo gregge. Lontano dalle contese politiche, non volle però abdicare alla sua responsabilità di maestro e di pastore del gregge affidatogli. Con responsabilità e audacia intervenne quando si trattò di difendere i diritti della verità e della giustizia e quando il silenzio poteva suonare connivenza con l’errore, o peggio ancora, con il sopruso, con decisioni di conduzione della vita civile che ponevano in questione il valore supremo della libertà umana.
Il Santo dovette affrontare, con la sollecitudine del pastore, anche i problemi legati a un’economia in crescita, ma non sempre rispondente ai criteri evangelici. Egli fu in prima linea nel combattere l’usura, la superstizione, il gioco e ogni altra forma di sfruttamento, né mancò di approfondire l’analisi delle implicanze morali dell’agire economico.
Sant’Antonino fece fronte a questa mole enorme di problemi con due strumenti in particolare: la ricerca di una personale santità e quella intelligenza della fede capace di diventare cultura e di abbracciare e illuminare tutte le dimensioni della vita. Prima di tutto, dunque, la santità personale. Una santità nutrita di umiltà, di povertà e di carità. E poi un pensiero in grado di calare nel tempo la verità del Vangelo, assicurando il legame della storia con l’eterno, delle questioni della vita ordinaria con l’aspirazione all’unione con Dio.
Egli sapeva bene, come dice il brano evangelico che abbiamo ascoltato, che la nostra vita ha senso solo se è attesa di Qualcuno, se è desiderio dell’incontro col Signore, solo se è una veglia continua in attesa di Colui che sta alla porta e bussa perché possiamo aprirgli subito appena arriva. Solo se, sull’esempio di Sant’Antonino, coltiveremo questo spirito di apertura alla presenza di Dio nella nostra vita, potremo sederci alla mensa del Signore, avere la ventura di essere serviti da Lui e godere così della sua festa eterna, con i suoi santi, con sant’Antonino nostro patrono, padre e maestro.
Giuseppe card. Betori